venerdì 10 aprile 2015

MODALITÀ SOCIOFAMILIARI DI CURA connesse al LAVORO / Un ANTIDOTO al DISSESTO SOCIALE

Perché tanta violenza che distrugge?
 di Iole Natoli

Accade di dover mettere a raffronto scritti altrui, non perché siano identici o contrari, ma per il campo di riferimento comune. Quelli da me qui scelti sono due: Umberto Galimberti: la nostra società ad alto tasso di psicopatia non è adatta a fare figli (=>), intervista col noto filosofo e psicoanalista, già docente universitario italiano, e Il genere della violenza, gli orrori hanno un sesso (=>), articolo della giornalista e saggista femminista Lea Melandri. In entrambi si analizza infatti il fenomeno di cui facciamo esperienza quotidiana, se non in proprio quali osservatori impotenti.
Nel descrivere le “mappe emotive”, che si strutturano nei bambini mediante le cure ricevute nel corso   dei loro primissimi anni e che condizioneranno il loro modo d’interagire col mondo, Galimberti così si esprime:
«Se nei primi tre anni di vita i bambini non sono seguiti, accuditi, ascoltati allora ci si trova di fronte ad un misconoscimento che crea in loro la sensazione di non essere interessanti, di non valere niente. Crescono così senza una formazione delle mappe cognitive, rimanendo a un livello d’impulso. Gli impulsi sono fisiologici,   biologici, naturali. Il passo successivo dovrebbe essere di passare dagli impulsi alle emozioni ovvero a una forma più emancipata rispetto all’impulso. L’impulso conosce il gesto, l’emozione conosce la risonanza emotiva di quello che si compie e di quello che si vede. Poi si arriva al sentimento che è una forma evoluta, perché non solo è una faccenda emotiva, ma anche cognitiva». Esso «consente di percepire il mondo esterno e gli altri in maniera adeguata, con capacità di accoglienza e di risposta adeguate alle circostanze».
Discorso condivisibile ma nel quale - non sappiamo se per scelta dell’intervistato o della sua   intervistatrice, ovvero per esigenze di spazio - si nota un salto che copre qualche vuoto. 


Si passa infatti troppo lestamente da quel che accade nei primi tre anni di vita al tempo della scuola e dell’adolescenza. Ora, se i primi tre anni sono fondamentali come Umberto Galimberti sostiene, allora è lì che va posta di più l'attenzione, benché non in maniera esclusiva.
«La nostra» società, continua Galimberti, «non è idonea perché i genitori, per sopravvivere, devono lavorare in due e quindi il tempo per la cura dei figli non c’è».
Affermazione che, lasciata così, fa supporre:
- che il lavoro sia solo e sempre un elemento necessario per la sopravvivenza materiale e che non possa costituire per ciascuno dei genitori un valore da desiderare. Le donne e gli uomini che il lavoro lo scelgono e non si limitano soltanto a subirlo non sono in questa frase contemplati; 
- che un’alternanza nell’attività di cura non sia minimamente programmabile.
E poiché non si sta dicendo nulla per evitare di cadere nel luogo comune in base al quale il lavoro esterno sia spettanza dell’uomo e attenga invece alla donna per rinforzo, ovvero quando i proventi di quello maschile non coprano i bisogni familiari, si rischia di sollecitare sia pure involontariamente un passo indietro antistorico, a tutto e solo danno delle donne. La prima conseguenza che viene attivata nella mente del lettore infatti è: "Questo però non accadeva quando le madri stavano a casa e si occupavano loro dei figli!". 
ESISTONO SOCIETÀ MATRIARCALI dove le famiglie non sono come noi le intendiamo nella nostra cultura e dove l'accudimento dei bambini è condiviso all'interno di ogni clan matriarcale da madri, zie e zii (sorelle e fratelli delle madri) e nonne materne, condivisione che consente a ogni partecipante di non privarsi delle libertà personali e di dare ugualmente ai loro piccoli tutto ciò di cui hanno bisogno. I bambini, sia maschi sia femmine, crescono serenamente in tali comunità che non hanno mai adottato un modello di violenza e non conoscono stupri, femminicidi, abbandono degli anziani e altre piacevolezze, che son tipiche invece delle nostre.
ESISTONO SOCIETÀ NON MATRIARCALI dove l'accudimento dei bambini è considerato un diritto dei genitori - donne e uomini - e dove lo Stato consente loro  di occuparsene abbastanza a

Foto di Francesca Rosati Freeman
lungo con una minima decurtazione di stipendio, ben compensata dalla ridotta necessità di rivolgersi a baby sitter a pagamento. Questa è la società norvegese, come si apprende dal servizio realizzato anni fa da Francesca Barzini, Riccardo Iacona ed Elena Stramentinoli, dal titolo Senza donne (Presa diretta, Rai.it =>).
Noi, però ci guardiamo bene dal dire che, in quanto le cose non vanno, vogliamo questo sistema o quell'altro; ci limitiamo a fare denunce contro il modello socio-familiare corrente, strizzando magari distrattamente l'occhio al passato, con la conseguenza che siffatte iniziative non producono nessun cambiamento, benefico quanto ormai necessario.
Non possiamo pensare di arginare i danni, di cui subiamo sempre più la frequenza, offrendo solo stampelle provvisorie e carenti. Ciò che occorre è RISTRUTTURARE, avere il coraggio di dichiarare collettivamente che abbiamo fondato (o, se si preferisce, che è stata fondata) una società sbagliata, improntata al dominio, al profitto, all’alienazione e che l’intera struttura sociofamiliare va posta sotto accusa e modificata.
E qui trovo necessario riferirmi all’articolo di Lea Melandri già citato, interessante sotto molti riguardi, per un aspetto che va però analizzato.
Dopo aver dichiarato che la violenza non è priva di sesso, ascrivendola come la realtà impone di fare a quello maschile, Melandri inferisce: «se avessero avuto fin dall’inizio della storia umana la forza fisica, il possesso delle armi e tutto il potere che si è arrogato l’uomo, non è da escludere che» le donne «avrebbero potuto farne un uso altrettanto selvaggio».
Ma non si esce, con asserzioni di questo tipo, dalla logica della nostra società attuale. Si sta infatti con   ciò ipotizzando che le donne avrebbero potuto manifestare un interesse proprio nell’inventare o comunque arrogarsi un potere distruttivo fatto di creazione e impiego delle armi - analogo dunque a quello che la presa di potere maschile ha istituito su quasi tutto il pianeta - se solo gli uomini non avessero avocato a sé tutto il sistema.
E sulla base di quale elemento concreto lo si afferma? Lo si sostiene in quanto all’interno della società patriarcale anche le donne sono a volte aggressive e violente, come viene fatto notare? Lo sapevamo ma non dimostra nulla, in quanto le donne non sono né potrebbero essere contenitori di fulgide virtù, avulsi dall’ambiente circostante; è la struttura stessa di questa società violenta, che contamina e conseguentemente degrada ogni eventuale soggettività alternativa.
Io arrivo a supporre invece il contrario e sostengo che, malgrado i vari disastri registrati e compiuti storicamente da uomini, non disponiamo di elementi sufficienti per attribuire al sesso maschile in sél’aspirazione alla violenza, all’esercizio del dominio e alla sopraffazione socioeconomica. Lo affermo perché in quelle società in cui la presa di potere patriarcale non si è mai verificata - o per isolamento di quelle comunità o per capacità di resistenza delle stesse a mutamenti in quella direzione - gli uomini non hanno sviluppato quelle caratteristiche competitive, aggressive e violente che invece distinguono negativamente, con talune differenze di grado, la maggioranza degli uomini delle nostre società attuali, che dei sistemi patriarcali sono figlie. Per usare i concetti espressi da Galimberti, possiamo dire che in società dove “mappe emotive” confacenti, formatesi nella primissima infanzia per le cure di clan ben strutturati, hanno permesso lo sviluppo del sentimento, individuale e collettivo, gli uomini si sono dimostrati esenti da quelle caratteristiche perniciose che li rendono protagonisti di delitti efferati in comunità sociali differenti.
Serve a poco appuntare lo sguardo su questo o quell’aspetto, sulle conseguenze che certamente moltiplicano ed elevano a potenza il fenomeno ma non sulle cause. Finché non si capirà che la modifica deve essere radicale, che urge un cambiamento dell’intera struttura, avremo libri e intere biblioteche colme di sensibilissime parole, prive però di una qualche effettiva utilità.
La nostra comunità globale è anche miope. Le società produttrici di beni o servizi affrontano investimenti da salasso per potersi aggiudicare i necessari destinatari attuali e futuri dei loro prodotti e lo fanno tramite sofisticazioni pubblicitarie sempre più pervasive e pagando per l’utilizzom di fasce di trasmissione mediatica abbastanza care. Spese che vanno ad aggiungersi a quelle che la produzione vera e propria comporta.
Sfugge però alla società globale che il banco di risorse future per ciascuna società produttrice di qualsivoglia bene è destinato all’esaurimento progressivo e costante, nella misura in cui i giovani attuali non saranno tanto pazzi da mettere al mondo figli destinati alla totale precarietà economica e sociale, esposti inesorabilmente a falcidie per fame e violenze singole o collettive. Sfugge cioè che investire nel sociale potrebbe produrre benefici maggiori che non quelli attualmente ottenuti investendo in altro.
La filiazione non è un fatto privato di questa o quella famiglia che la attua. È fonte del perpetuarsi dell’umanità intera e del benessere (o malessere) di questa e dunque non va stimolata alla cieca - ti do un buono alla nascita di ogni bambino e poi ti arrangi, anzi vi arrangiate sia tu sia tuo figlio - ma considerata un bene da promuovere e tutelare con provvedimenti a monte, fatti di investimenti obbligatori abbastanza cospicui e mirati, di cui il libero mercato dovrà finire con l’essere un po’ meno libero di potersi bellamente infischiare. E questo lo si fa approntando leggi specifiche, che una volta attuate finirebbero col divenire un vantaggio anche per coloro che dovessero oggi guardare con occhi avversi le politiche sociali individuate.
Cosa difetta alla società attuale? Quel che manca è l’innalzamento a sistema di quella modalità materna che oggi alcune di noi, mosse dalla comprensibile paura di veder tornare a crescere l’antica equazione donna=procreazione-e-cura-dei-figli-e-null’altro-che-ciò, sono intente a occultare che ci sia.
Dire che una società deve accogliere e praticare “il materno” non significa né affermare che le donne siano superiori e perfette e gli uomini, invece, errori di natura e nemmeno sostenere che le donne debbano fare solamente le madri, o che tutte debbano diventarlo. Significa, al contrario, che la funzione di generatività e allevamento, di cui la donna è strutturalmente dotata e che esercita in proprio con una gravidanza se ritiene di volerlo fare, DEVE IMPRONTARE DI SÉ IL MODELLO SOCIALE.
Smettiamola di santificare le donne per addossare loro tutti i pesi e le limitazioni possibili al fine di riuscire ad attenuare alcuni danni, ma smettiamola anche di espropriarle di alcune delle loro peculiarità negando che ci siano, per paura di esserne catturate.
Una donna in gravidanza volontaria - o se non volontaria comunque accettata di buon grado - non è portatrice amorfa di un ammasso di cellule che si evolvono senza il suo contributo. Al contrario, di quella crescita e mutazione è elemento determinante, eroga il nutrimento necessario e offre la protezione indispensabile affinché quell’essere, che è impegnato nel proprio sviluppo, possa condurlo realmente a compimento sino alla nascita.
Questa è una MODALITÀ MATERNA NATURALE, che una comunità sociale ben strutturata è capace di attivare utilmente e di estendere, al di fuori dell’esperienza della gravidanza, anche a soggetti che non generano in proprio.
È ciò che accade nelle società matriarcali ed è utile soffermarsi al riguardo non solo sull’accurata narrazione che di una di esse (la Moso) fa Francesca Rosati Freeman, autrice di un libro e coautrice di un documentario su questa comunità, ma anche sulle parole di meraviglia espresse da Pio d’Emilia, coregista insieme a lei di quel film, in merito alle relazioni di affetto e fiducia che i bambini lì instaurano con gli uomini (=>).
Istituire una modalità di cura simile alla materna naturale è anche ciò che si è cercato di attuare in Norvegia, dove non esiste il clan ma l’arcinota famiglia nucleare, POSTA PERÒ AL CENTRO di provvedimenti legislativi che ne tutelano le più importanti esigenze. La modalità materna è estesa ai padri, affiché possano lasciare il loro abituale lavoro per poter crescere da sé i propri figli e occuparsi delle incombenze connesse, anche per un intero anno, mentre le madri magari continuano a lavorare fuori casa, se questa è la cosa che desiderano. Una visione della famiglia nucleare completamente diversa dalla nostra, una pianificazione familiare che contempera le esigenze di ogni suo componente, resa possibile dal fatto che il loro lavoro integrale quegli uomini e quelle donne lo ritroveranno a periodo di astensione concessa (e parzialmente retribuita) trascorso; nessuno glielo toglierà e nessuno li retrocederà di qualifica, perché nessuno intende punirli in qualche modo per la scelta che hanno effettuato.
  Milano, 10.04.2015
© Iole Natoli

3 commenti:

  1. con tutto il rispetto per i Moso (devo dire che io non credo nei paradisi in terra e molti siti che frequento descrivono la civiltà moso proprio così), io credo che l'aggressività così come la mitezza faccia parte degli esseri umani (in percentuali diverse a seconda delle persone)..ben venga un mondo in cui la generatività e l'allevamento hanno una importanza maggiore a livello sociale ma non credo in un mondo o una civiltà completamente priva di aggressività..non so neanche se sia auspicabile..è auspicabile che aggressività e violenza vengano incanalate in forme socialmente accettabili e non repressa (perchè ciò porta a risultati peggiori)

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  2. La non violenza non coincide con la mitezza. Anche tra i Moso ci sono a volte discordie, che però vengono gestite dai gruppi in modo da escludere la violenza. Certamente in una comunità abbastanza piccola tutto questo può essere maggiormente praticabile, tuttavia esistono comunità non matriarcali ma altrettanto piccole che però la violenza la praticano.
    Di comunità non violente ha scritto molti e molti anni fa un antropologo psicoanalista, H.E.Erikson, che si prendeva la briga di visitarle e studiarle da vicino. Dalla sua pubblicazione al riguardo, Infanzia e società, che contiene anche capitoli su altri argomenti, non emerge con chiarezza si si trattasse di comunità matriarcali o meno. Almeno per qualcuna di esse però è possibile, perché si accennava al ruolo degli zii materni.

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  3. Per quanto mi concerne, la mia insistenza sulle comunità matriarcali non deriva dall’intenzione di celebrare una società realmente o quasi perfetta, o di trasferirne altrove la struttura, ma da una ragione diversa.
    Siamo assuefatti all’idea che la violenza sia un male congenito e dunque ineliminabile. Riteniamo di doverci convivere giocando a dadi la nostra partita personale nella speranza di non esserne mai vittime o di non trasformarci in violentatori. Poco o nulla facciamo per valutarne i motivi di insorgenza e predisporre misure adeguate affinché avvenga ciò che lei stesso auspica: incanalare l’aggressività per vie diverse, cosa che la stessa psicoanalisi propone ma non può attuare socialmente, ovvero a livello di comunità.
    Rendersi conto che la violenza non è un marchio di fabbrica ma, come tanti altri comportamenti, É APPRESA serve a capire che dobbiamo muoverci per fronteggiarla a livello collettivo e non solo individuale (come può fare lo o la psicanalista nel suo rapporto terapeutico con un o una paziente).

    Eliminarla o fronteggiarla adeguatamente impone un’analisi effettiva e non l’uso di formule direttamente o indirettamente repressive. Repressivo è ad esempio il tipo di gestione familiare nei confronti delle donne anche quando la repressione non è attuata per propria volontà dal coniuge ma dal sistema che amputa la donna-madre dell’esercizio delle sue capacità (e mi riferisco al lavoro). E dunque a poco serve stabilire che nei primi tre anni di vita i bambini hanno bisogno di relazionarsi a una persona adulta significativa (che si sottintende debba essere necessariamente il genitore di sesso femminile, cioè la genitrice), se poi avremo reso nevrotiche le madri (per non parlare delle nevrosi dei padri...)

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