Può la responsabilità personale essere oggetto di dono o di
vendita?
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di Iole Natoli *
Premessa
Il dibattito in corso
sulla cosiddetta sulla GPA (gestazione per altri) è stato volutamente
strumentalizzato dalla destra italiana,
che ha preteso di estendere il parere contrario di molte femministe su questa
pratica al Ddl Cirinnà in discussione,
che verte invece sulle unioni civili e la stepchild adoption per le coppie
omosessuali.
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Ne è derivato l’invito da parte di alcune femministe a
differire la discussione sulla GPA a un momento successivo all’approvazione
della legge in questione. Ciò significa però farsi dettare l’agenda da soggetti estranei al femminismo, accantonare
un dibattito che richiederà tempo e lavoro e giungere all’appuntamento di
febbraio - francese, sì, ma di sapore europeo - senza aver
preliminarmente maturato una visione abbastanza approfondita del tema.
Personalmente rifiuto di sottostare sia alla
strumentalizzazione operata ad arte da Gasparri sia alla sottomissione a
tempi altri, determinati unicamente dal suo più che improprio intervento. Mi
dichiaro dunque apertamente a favore della legge Cirinnà, invitando lettrici e lettori a sottoscrivere l'appello di cui al
link seguente (=>), e al tempo stesso mi esprimo sulla GPA, ritenendo non rinviabile l’esame di tale pratica che,
ricordiamolo, è stata ed è utilizzata dalle coppie eterosessuali, molto
ma molto più estesamente del recente ricorso ad essa dei gay.
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In un suo scritto del 13 novembre 2015, Clara Jourdan
si esprime sul dibattito in merito alla Gestazione Per Altri (GPA),
comunemente liquidata non senza molte buone ragioni come “utero in affitto”,
dichiarandosi favorevole ad un’altra definizione già in uso, quella di “maternità solidale” (=>).
Premesso che i casi di utero
letteralmente in affitto sono stati fin qui la maggioranza e non l’eccezione
e talvolta con conseguenze anche gravi, ritengo utile esaminare da che cosa
nasce il ricorso alla gestazione per
altri - che io propongo di chiamare invece gestazione richiesta da altri - e soprattutto da quali
presupposti ideologici ed etici muove. Se non riuscissimo a individuare
nessun presupposto etico ma solo qualche indicazione di comodo, infatti,
servirebbe assai poco discettare più o meno sapientemente su un’altra
definizione: in tal caso la dizione di “utero in affitto” sarebbe l’unica
veramente appropriata.
Il punto di partenza è
individuabile nella domanda e la domanda nel desiderio di avere un figlio o
una figlia. Il punto di partenza degli aspiranti genitori, però, perché per
quanto riguarda la cosiddetta gestante
per altri ci imbattiamo in qualche sorpresa.
In un video diffuso dalle
Famiglie Arcobaleno dal titolo “Intervista ad una portatrice per altri”, Nancy, una donna americana, dice testualmente (=>): «Avevo
già quattro figli miei e sapevo di non volerne altri, ma mi piaceva essere
incinta e ho pensato che, non volendo più figli per me, avrei potuto provare
la gestazione per altri». Nella sua mente, dunque, lo stato di gravidanza desiderabile
sarebbe stato dissociato già in partenza dal suo esito naturale, quello di
occuparsi personalmente della o del generato.
Se questa dichiarazione non
derivasse da un’autogiustificazione a
posteriori, ma fosse un effettivo a
priori rispetto alla destinazione di un figlio, ci darebbe parecchio da
pensare. Equivarrebbe a dire: mi piacerebbe essere incinta, ma dopo vorrei
disfarmi del bambino. So che non posso farlo, non solo sul piano pratico ma
anche su quello etico, perché sarebbe un infanticidio o un abbandono, e
allora evito di essere incinta. Paradossalmente, la domanda dei genitori
committenti sarebbe così non la causa ma la soluzione al problema di base
della donna in questione. Io desidero ardentemente restare incinta e voi
traete vantaggio da questo mio piacere personale.
Ciò suscita inevitabilmente la
domanda: ma PERCHÉ una donna può desiderare di essere incinta AL DI FUORI
della possibilità di avere un figlio da tenere con sé dopo la nascita? Quale
gratificazione soggettiva può trarne? Il fatto che la gravidanza non sia mai
stata per lei un problema, come dichiara, non illumina la causa prima della
sua propensione. Che si tratti di un desiderio di onnipotenza (motivazione
che, quando estremizzata, ha portato qualche altra donna a commettere
infanticidi seriali), o di qualcosa che al momento sfugge, mi limito a
prendere atto del suo caso e passo a occuparmi in generale degli aspiranti
genitori, ovvero dei genitori committenti.
Possono darsi 4 possibilità, che
traggo da quanto su GPA effettuate all’estero è pervenuto da notizie di
cronaca:
a) che l’embrione da impiantare derivi dalla coniugazione di un ovocita dell’aspirante madre con lo spermatozoo
dell’aspirante padre.
In tal caso il futuro bambino sarebbe geneticamente figlio di entrambi i genitori committenti, che però
avrebbero bisogno ugualmente di un grembo materno disponibile ad accogliere,
far crescere e infine partorire il figlio progettato, con un coinvolgimento biologico totale sicuramente NON INFERIORE a
quello che può qualificarli come genitori (analizzeremo più avanti questo
aspetto), condizione che ricorre anche nelle ipotesi successive, con tutte le
sue implicazioni;
b) che l’embrione da impiantare derivi dalla coniugazione di un ovocita dell’aspirante madre con lo
spermatozoo di un donatore. In tal caso il futuro bambino sarebbe geneticamente figlio solo della genitrice committente;
c) che l’embrione da impiantare derivi dalla coniugazione di un ovocita di una donatrice con lo spermatozoo dell’aspirante
padre. In tal caso il futuro bambino sarebbe
geneticamente figlio solo del
genitore committente;
d) che l’embrione da impiantare
derivi dalla coniugazione di un
ovocita di una donatrice con lo spermatozoo di un donatore. In tal caso
il futuro bambino non sarebbe geneticamente figlio di alcuno dei
genitori committenti.
Ne deriva che, in quest’ultima
situazione, rispetto al legame genitori-figli non v’è nessuna differenza tra
un bimbo commissionato e uno adottato, se non il fatto che nel primo caso si
tratta di un neonato e nel secondo di un bimbo di una qualche età. Di più: il neonato sarebbe in realtà figlio solo
della donna nel cui utero l’embrione è stato impiantato, in quanto solo
la gestante avrebbe avuto un rapporto biologico ed emozionale con lui sino al
momento della nascita. E tuttavia, questa donna si sentirebbe autorizzata a
dar via il bambino ad estranei totali con cui ha stipulato un contratto,
ovvero a soggetti motivati solo dal desiderio di godere in proprio di un pupo nuovo di zecca.
All’origine delle situazioni delineate
c’è, per i committenti, il desiderio di avere un figlio. Tale desiderio, in
sé naturale, non può costituire un
“diritto” ove la sua realizzazione implichi non il semplice utilizzo di
materiale genetico donato (o eventualmente comprato) ma l’uso massiccio e prolungato di un corpo altrui, che diviene
indispensabile per l’attuazione del progetto.
Che non ci sia un diritto non
esclude tuttavia che possa configurarsi in futuro una qualche possibilità, benché
al momento lo Stato italiano non sembri disposto a occuparsene. Ed è questa
eventuale possibilità che mi sembra opportuno esaminare.
Cosa implica il ricorso a una gestante per altri da parte degli aspiranti
genitori?
Con tutte le varianti possibili,
dovute a una maggiore o minore sensibilità personale, implica in primo luogo che il figlio partorito dalla gestante
sia consegnato ai committenti.
Questi potranno recidere ogni
rapporto tra l’ex gestante e il piccolo, oppure potranno consentirlo per
qualche tempo, o ancora potranno mantenerlo vita natural durante in misura e
con modalità più o meno significative.
In altri termini, i genitori committenti si appropriano
di ogni capacità giuridica futura delle donna-gestante in rapporto al bimbo
generato, per contratto scritto o verbale.
Da parte sua, nell’accettare di
compiere una gestazione per altri, la
futura gestante cede la propria volontà
futura e dunque si aliena e
ciò anche se in quel momento non ritiene di voler avere rapporti col bimbo
una volta che egli sarà nato. La cede senza condizioni e, col farlo, dipenderà
interamente dalla volontà dei genitori ufficiali, anche se avrà maturato un
ripensamento al riguardo (in Gran Bretagna pare che possa ripensarci, ma solo
al momento della nascita).
Completata l’analisi della
coppia “genitrice” - ma potrebbe anche trattarsi non di una coppia bensì di
una genitrice o di un genitore single, eterosessuale o gay - nel suo rapporto
col futuro figlio e con la gestante, torniamo a occuparci unicamente della “gestante per altri”.
Una donna decide di trasformarsi
in questa nuova figura dei tempi nostri per una delle seguenti ragioni:
1 - ha bisogno di denaro e non
ha modo di procurarselo. Praticamente si vende, ma, sostengono alcune
femministe, se vuol vendersi sarà anche libera di farlo. Analizzeremo più
avanti quest’affermazione, perché in
questo caso poggia su un presupposto fallace;
2 - non ha bisogno di denaro ma
il denaro le fa comodo e lo vuole. Vale anche qui quanto detto già sopra;
3 - le piace mostrare al mondo
che può sfidare le leggi della natura e che lei è proprio una donna-donna (un
tempo, una donna che non aveva figli non era considerata tale). Patologico,
ma non sta a noi spaccare in quattro il capello anzi il cervello di questo
eventuale tipo di donna e dunque passiamo oltre;
4 - desidera che la coppia, il
single, o la single, che si rivolge a lei perché impossibilitata a partorire,
possa avere un bambino “proprio” (e qui si ricordano le quattro situazioni
diverse analizzate all’inizio) perché è imparentata con uno di loro.
Comprensibile, ma non per questo automaticamente accordabile;
5 - ha interesse a che la coppia,
il single, o la single, che si rivolge a lei perché impossibilitata a
partorire, possa avere un bambino “proprio” (e anche qui si ricordano le
quattro situazioni diverse analizzate all’inizio) perché le piace poterli
fare felici. Comprensibile? Forse sì, forse no, ma comunque non accordabile
automaticamente.
È evidente che la condizione di gratuità, che viene proclamata da più
parti, può valere solo per le ultime due situazioni esaminate (4 e 5), non
per almeno due delle precedenti (1 e 2).
È anche evidente che una
gratuità assoluta non può esserci, in quanto si rendono necessarie spese per
assistenza e cure, per il benessere fisico della gravida, per il recupero di
energie della puerpera e questo non può ragionevolmente rientrare nel dono ma ne esula. Parliamo dunque di una gratuità che tuttavia deve contemplare il
totale rimborso delle spese attinenti, in assenza del quale ci sarebbe
soltanto sfruttamento.
È chiaro tuttavia che la
gratuità, intesa come assenza di guadagno economico della gestante, potrebbe
anche essere richiesta da una qualche legge ma praticamente aggirata nei
fatti; non soltanto, dunque, non può costituire l‘unico elemento da valutare
per un’eventuale liceità del ricorso alla gestazione per altri perché non sostituisce il criterio di responsabilità, sul quale ci soffermeremo più avanti, ma, per quanto possa avere di per sé un
valore etico, può configurarsi facilmente come una facciata che accontenta
tutti, permettendo che gli occhi restino ben chiusi su una realtà del tutto
differente.
Passo ora a un aspetto che viene
sistematicamente taciuto e che a me, invece, interessa moltissimo. Trovo
infatti che si parli continuamente di diritti senza spesso intenderne il
senso e conferendo loro un valore assoluto anche quando sono in evidente conflitto con il diritto di altri.
E poiché a proposito di diritti
assoluti molte e molti si sono scontrati apertamente in nome
dell’AUTODETERMINAZIONE DELLA DONNA, espongo le mie considerazioni
sull’argomento.
Intanto, l’autodeterminazione
non è prerogativa dell’essere femminile soltanto. Di autonomia ed eteronomia
si discuteva in sede filosofica molto prima che il grido “l’utero è mio e me
lo gestisco io” invadesse piazze e strade d’Italia e di una buona parte del
mondo.
Autodeterminazione significa
diritto di determinare la propria
vita, di effettuare le proprie
scelte, di decidere del proprio
destino e così via. PROPRIO e non di altri. L’autodeterminazione riguarda sempre e solamente SÉ. In questo
senso rientra nell’autodeterminazione la scelta di fine vita (che poi la
legge italiana non la contempli è tutta un’altra questione). IO
chiedo che il MIO corpo muoia e, se non posso farlo da me perché impedita, IO
chiedo che altri mi aiutino in un processo di estinzione che riguarda SOLO ME
che lo chiedo e non determina il destino altrui, nemmeno di quelli che mi
aiutano. Questo vale per donne e per uomini.
Nell’autodeterminazione
rientra il diritto di aborto. Il figlio non voluto invade, per qualche mio o
altrui errore o per iniziativa violenta (stupro), il MIO corpo e determina il
MIO futuro. La soppressione di un
embrione NON coincide con una decisione sulla vita futura di un essere umano,
perché con l’aborto lo sviluppo sarà fermato prima che l’embrione pervenga
allo stadio di essere umano e di conseguenza una vita futura dell’essere non
ci sarà. Considerare l’embrione come bambino è una pura stortura mentale, non
solo perché l’embrione difetta della completezza del bambino, ma perché al di
fuori del corpo ospitante NON potrebbe in alcun modo completarsi e dunque svilupparsi
attraversando gli stadi successivi. Perché sviluppo e completezza ci siano, l’embrione NECESSITA di un corpo, che
però essendo diverso dal suo non gli appartiene, il corpo della donna
ospitante, la quale, nel caso di una gravidanza naturale giunta a termine,
diviene (benché in partenza non lo sia)
madre.
Scelta
di fine vita e di aborto rientrano dunque pienamente nell’AUTODETERMINAZIONE
individuale. La stessa cosa non può dirsi, invece, nel caso di una gestazione per altri con consegna
finale e definitiva del pupo.
Nella
gestazione per altri la donna esce dalla sfera del sé per esercitare una decisione che riguarderà
non l’embrione (non è l’embrione
che consegna poi ad altri) ma il
bambino già nato e dunque un soggetto umano titolare a tutti gli effetti
di diritti. Schiaffandolo d’autorità sulla faccia della terra,
esercita nei suoi confronti un potere che esula dalla sua facoltà naturale di
poter procreare un figlio suo e lo
fa al di fuori della responsabilità
che ogni genitrice o genitore si assume nei confronti della figlia o del
figlio, agendo, dunque, in condizione di IRRESPONSABILITÀ ASSOLUTA.
Ed infatti una volta che il bimbo è nato se ne disinteressa, o perché
personalmente non ha nessuna voglia di occuparsene, o perché costretta al
disinteresse da patti verbali o scritti che ha accettato. Ciò che di fatto ha venduto o ha “donato”
non è soltanto, temporaneamente, il suo corpo, del quale ha tutto il diritto di disporre, ma il “prodotto finito” (il
bambino / la bambina) insieme alla
propria responsabilità.
Ma
ha il diritto la donna di mettere al mondo una creatura umana in stato di
irresponsabilità nei suoi confronti? Senza il suo intervento quel bimbo o
quella bimba non sarebbe mai nata e dunque la responsabilità oggettiva di tale
venuta al mondo è, quanto meno in
misura paritaria, anche sua. Lo è in pieno, se consideriamo NEL REALE
quel che avviene nel corso di una gravidanza tra la donna e il futuro
bambino, se cioè infrangiamo il
principale dei tabù culturali che ci sono stati imposti. La cultura
maschilista ci ha perversamente insegnato a nascondere il vero, per poter
pareggiare con la finzione ciò che pari non è nella realtà, ovvero il
maggiore contributo femminile rispetto a quello maschile nella generazione di
un figlio.
Leggiamo ciò che sulla
gravidanza successiva ad impianto (in
questo caso di embrione con ovocita donato e spermatozoo coniugale) scrive
una specialista, la Prof.ssa Alessandra Graziottin, Direttora del Centro
di Ginecologia e Sessuologia Medica H. San Raffaele Resnati, Milano. «La
donna ricevente (…) non è semplicemente un’incubatrice “passiva”. Oggi
sappiamo che la madre condiziona l’espressione di geni del figlio attraverso
l’ambiente biochimico, ma anche emotivo, che la caratterizza e che è
specifico di quella gravidanza. Non è
infatti importante solo il tipo di geni che noi ereditiamo (la maggior
parte resta in effetti silente per tutta la vita), ma quanto e quando si esprimono. Si parla infatti di
“penetranza” ed “espressività” dei geni, proprio per dire che esiste una
grande variabilità nel modo in cui le diverse parti del codice genetico
possono esprimersi, nel senso di dar luogo a tutte le azioni e le modificazioni
che sono di loro competenza. Potremmo
dire che lo stesso ovocita, fecondato in vitro con lo stesso spermatozoo, può
dar luogo a due bambini in parte diversi a seconda della madre che riceve
quell’embrione» (=>).
Dunque la madre che porta a compimento una gravidanza propria, ovvero che
partorisce un bimbo generato da un embrione formatosi per coniugazione di un SUO gamete con quello di un partner maschile (marito,
compagno, amante occasionale, o donatore sconosciuto), contribuisce alla
generazione del figlio non solo con
patrimonio genetico quantitativamente pari a quello del partner o donatore
(50%) ma anche con una gestazione che corrisponde a un pacchetto esclusivo comprendente alloggio, vitto, scambio
biochimico ed emotivo con cui si determina lo sviluppo del futuro bambino e
infine parto (che non coincide
esattamente con una passeggiata).
Questo pacchetto esclusivo e necessario è presente in modo interamente
analogo nel caso di una gestazione per
altri, ma paradossalmente, mentre nel caso di una coppia che ricorre a un
ovocita
donato la donna gestante e partoriente viene considerata MADRE del bimbo
nato, nel caso in cui la gestazione sia stata avviata dietro richiesta altrui
la donna gestante e partoriente viene considerata una NON MADRE, al limite
una “madre surrogata” o una “surroga di madre”, quando non una “donna
portatrice” (forse del sacco della spesa), del tutto priva non solo di
coinvolgimento biochimico ed emotivo ma anche e soprattutto di responsabilità
e diritti nei confronti del bimbo o della bimba. Condizione di base perché questo avvenga è L’ANONIMATO.
Ma su quale criterio etico si
baserebbe questa condizione? L’anonimato quale garanzia per la partoriente
che non vuol riconoscere un figlio proprio è altra cosa. Nasce da ragioni
specifiche. Deriva dall’intento di offrire alla donna che non avrebbe voluto quella gravidanza un’alternativa oggettiva
all’aborto e soprattutto ha lo scopo di evitare
gli infanticidi, ovvero l’uccisione di bimbi appena nati ma non voluti. Corrisponde a una
“riduzione del danno”, in rapporto al quale lo Stato non dispone di altro
potere preventivo. Cancella, sì, la responsabilità personale della donna
verso la figlia o il figlio, ma nell’interesse reale di questi ultimi.
Nella
GPA, invece, tale cancellazione avviene non nell’interesse del bambino ma dei
genitori-committenti che non vogliono legami e pastoie, o che si sappia in
giro che il figlio è stato partorito “per procura”. Non ha alcun senso obiettare
che responsabili del bambino saranno quei genitori: la responsabilità è personale e non trasferibile. La cosiddetta “gestante per altri” non
può avvalersi della responsabilità dei committenti per eludere l'unica di cui
dispone e risponde: la sua.
Da
quanto esposto si possono trarre alcune considerazioni finali, la prima delle
quali è che SE la GPA dovesse un
giorno essere consentita in Italia, essa dovrà essere minutamente regolata
per legge secondo criteri etici e non lasciata all’arbitrio delle persone.
Una
GPA legalizzata non può avere carattere di FABBRICA. Ne consegue che
l’ipotesi di cui al punto d) deve esserne esclusa. In altri termini, un
embrione interamente derivato dai gameti di due donatori non può per legge
essere impiantato nell’utero di una donna che non intenda occuparsi in
proprio e in esclusiva del futuro destino del nato; non può essere
convalidata nessuna “consegna” finale, né dietro pagamento, né a titolo
gratuito. Nel caso di embrione derivato da due donatori, dunque, la donna consenziente e partoriente deve automaticamente
essere riconosciuta come l’UNICA GENITRICE del bambino. Considerato che una
pratica del genere non può avvenire se non in strutture specializzate, queste
dovrebbero rispondere penalmente dell’occultamento legato a un preteso
anonimato.
Gli
unici casi in cui potrebbe essere legittimata per legge una GPA sono quelli
esposti ai punti a), b) c), casi nei quali la persona o la coppia committente
entrerebbe legittimamente in gioco in quanto generatrice al 100% o al 50%
dell’embrione.
Anche
nei tre casi sopra considerati, la gestante-partoriente però NON PUÒ decidere
di restare ANONIMA in quanto, per il ruolo complesso e volontario che
esercita, è automaticamente titolare di diritti e doveri nei confronti del
nato.
Le
modalità d’esercizio di tali diritti-doveri dovranno essere attentamente
studiate dal legislatore. In ogni caso devono concernere almeno questi punti
essenziali:
§ la
regolare frequentazione col figlio
comune (tale in effetti è il nato, come dimostra quanto spiegato dalla
professoressa Graziottin);
§ la
consultazione della madre-partoriente da parte dei genitori committenti per
le decisioni importanti riguardanti la vita del figlio/a;
§ il
diritto di ricorso a un giudice dei minori, nel caso in cui il/la genitrice o
coppia committente abbia assunto comportamenti o stia per assumere decisioni
che la genitrice-partoriente considera lesivi degli interessi vitali
della/del minore.
Qualcuno dirà: ah, ma questo
non è ciò che vogliono le coppie eterosessuali o gay oppure i single, che ricorrono
in qualche Stato estero a una GPA! Certamente, ma il fatto che non coincida
coi loro desiderata non cambia la
sostanza delle cose. Proprio perché so bene cosa vogliono sono stata totalmente contraria fin qui a una legalizzazione della pratica. Ciò che chi ricorre a
tale sistema di regola esige è la
cancellazione, immediata o procrastinata di poco, della madre partoriente.
Nel migliore dei casi auspica e consente una frequentazione saltuaria, quale
illuminata iniziativa personale (vedi
ad es. il video sopra citato), che però, come già detto, è insufficiente
non prevedendo l’aspetto decisionale ed è priva di garanzia, in quanto il/la
o la coppia committente si arroga il potere di decidere di tutte le
modificazioni che potrà voler introdurre in tempi successivi nella relazione
MadrePartoriente-bambino.
Ciò
è impensabile, alla luce di quanto analizzato prima. Ed è impensabile non
solo per la responsabilità non trasferibile della DonnaGestantePartoriente,
ma anche - e non certo in subordine - per il diritto del bimbo nato
(che nessuno sembra disposto a considerare) di non essere separato
arbitrariamente da chi, alla pari del genitore o dei genitori che lo hanno
“fornito” di DNA, ha contribuito in modo
volontario e pervasivo a determinare il suo sviluppo fetale e la sua nascita.
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13.12.2015
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© Iole Natoli
(link) ideatrice del primo progetto italiano
di doppio cognome per i figli (1979) e fautrice dell’abolizione del 143-bis c.c. (cognome coniugale per la donna)
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Leggi anche l'articolo successivo, che contiene un'articolazione più ampia dei contenuti da inserire in un'eventuale proposta di legge:
"LA GPA BOCCIATA IN EUROPA È PERÒ MOLTO PRESENTE NEL MONDO /
DIVERSAMENTE MADRE" (=>)
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sabato 12 dicembre 2015
"GPA", AUTODETERMINAZIONE e DIRITTI / Come intendere una “MATERNITÀ SOLIDALE”
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